In questi giorni diversi fatti di cronaca hanno spinto molte persone a parlare di come i media trattano determinati argomenti, ed è emersa chiaramente la responsabilità innegabile che essi hanno nella prevenzione e nel contrasto alla violenza di genere: possono contribuire a produrre stigmi e linguaggi che legittimano alcune forme di violenza.
Molte reazioni sono state di sdegno, di rabbia, di frustrazione, e queste emozioni hanno contribuito alla diffusione di messaggi rivoluzionari. Se sono emerse alcune forme di violenza perpetrate principalmente tramite i social media, in realtà si tratta di nuovi modi per perpetrare una violenza arcaica ma ancora prepotentemente presente nella nostra cultura.
Nella convenzione di Instanbul del 2011 si legge come è considerata violenza di genere “qualsiasi violenza diretta contro una donna in quanto tale o che colpisce le donne in modo sproporzionato”. I fenomeni che verranno descritti riguardano per il 90% comportamenti in cui la vittima è una donna e il perpetratore un uomo.
Perché una donna deve provare vergogna se fa sesso?
La nostra cultura è giudicante, sessista e retrograda: la libertà di un intero genere, quello femminile, è disciplinata dall’uomo. Se una donna delude le aspettative di un uomo, egli si sente in diritto di vendicarsi, di umiliare.
Per revenge porn, letteralmente “vendetta porno”, si intende la pubblicazione non consensuale sui social contenenti scene di atti sessuali, o la divulgazione di foto intime. Nonostante in questi video sia spesso presente anche l’uomo, è sempre la donna ad essere condannata per il suo comportamento riprovevole: è lei che si è fatta riprendere, che ha deciso di mandare sue foto intime, quindi è colpa sua. Non è l’uomo che è stato un vigliacco, che ha commesso un reato che spesso porta la vittima ad essere isolata, emarginata, derisa ed esposta alla gogna mediatica.
Questo spostamento dell’attenzione dal carnefice alla vittima, attribuendole la responsabilità della violenza subìta si definisce victim blaming, letteralmente “la colpevolizzazione della vittima”. All’abuso subìto si accompagnano la vergogna, la paura del giudizio, il senso di colpa; è un fenomeno chiamato “effetto moltiplicatore della violenza”. Molti fatti di cronaca mostrano che spesso è questa doppia vittimizzazione la più drammatica, tanto da spingere chi subisce violenza al suicidio.
Strettamente correlato è lo slut shaming, letteralmente “la vergogna della sgualdrina”, la quale rientra tra le denigrazioni a sfondo sessuale poiché l’obiettivo è far sentire una donna colpevole per determinati comportamenti o desideri sessuali. Una donna sembra non avere il diritto di vivere la propria sessualità come desidera: se non ha rapporti sessuali è una “frigida”, se ha più partner sessuali è una “poco di buono”. Siamo ancora incastrati nel binomio “Maddalena-Madonna” dove si contrappone l’ideale di donna pura e moderata alla donna provocante ed esuberante. L’insulto slut avviene spesso anche tra donne: “guarda quella come è vestita, sembra una zoccola”, “si è dimenticata la gonna a casa”, “sta sempre circondata da uomini, chissà perché”.. commenti sentiti milioni di volte. Noi donne svolgiamo un ruolo fondamentale nel bloccare atteggiamenti subdoli e tossici che alimentano questo tipo di cultura e di linguaggio.
Anche nel fenomeno del body shaming, letteralmente “far vergognare qualcuno per il proprio corpo”, gli attacchi al corpo femminile sono perpetrati sia da uomini che da donne, e i commenti sui social ne sono un lampante esempio. Molte persone si sentono in diritto di poter giudicare il corpo altrui, di fare confronti, di sentenziare sulla desiderabilità o meno di una donna. Spesso il valore femminile è associato proprio alla sua desiderabilità sessuale, stabilita ovviamente dallo sguardo maschile, dall’ideale di giovinezza, piacevolezza agli occhi degli uomini: “è una cozza, inchiavabile, culona, troppo magra, troppo rifatta, sembra di plastica, non me la farei mai” e così via. Si leggono tantissimi commenti di questo tipo sotto alcuni post, unitamente a parole e discorsi che hanno come unica funzione quella di esprimere odio ed intolleranza verso una persona o un gruppo particolare, gli hate speeches. Quando sono rivolti a donne, questi “discorsi d’odio” spesso assumono una connotazione a sfondo sessuale. Si leggono delle vere e proprie aggressioni con “battute” volgari e parole offensive dove la sessualità diventa il principale mezzo attraverso cui umiliare una donna, un’arena in cui attaccare la sua dignità personale.
È responsabilità di ognuno di noi parlare di queste tematiche nella nostra quotidianità: è fondamentale educare le donne a non essere sessiste e far capire agli uomini che questi comportamenti sono sbagliati.
È necessario prendere posizione e, sensibilizzare, ribadendo che ogni atto di violenza è responsabilità di chi lo perpetra e non di chi lo subisce. È fondamentale tenere acceso il dibattito e indignarsi quando necessario.
Autrice
Dott.ssa Alessandra Villa,
Psicologa Psicoterapeuta.
Bibliografia
Abbattecola E., Trans-migrazioni: lavoro sfruttamento e violenza di genere nei mercati globali del sesso, Torino, Rosenberg&Sellier, 2018
Bartholini I., Violenza di prossimità. La vittima, il carnefice, lo spettatore, il “grande occhio”, Milano, FrancoAngeli, 2013
Craparo G., Schimmenti V., Violenza sulle donne. Aspetti psicologici, psicopatologici e sociali, Milano, FrancoAngeli, 2014
Ringrose J., Renold E., Slut-shaming, girl power and “sexualisation”: thinking through the politics of the international SlutWalks with teen girls, in Gender and Education, vol.24, n.3
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