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Immagine del redattoreStefano Verza

Qualcuno pensi ai bambini (transgender)

Transfobia e Minority Stress


Qualcuno pensi ai bambini: lo sentiamo dire spesso, dai salotti TV ai luoghi della politica – cioè il Parlamento ma soprattutto le piazze.


Il 20 novembre ricorre la Giornata mondiale dei diritti dell'Infanzia e dell'Adolescenza e, insomma, quale occasione migliore per condividere questo pensiero? Qualcuno pensi ai bambini.

Tuttavia domani ricorre anche il Transgender Day of Remembrance (TDoR), la ricorrenza che commemora le vittime della transfobia.


Quali vittime?


Vittime come Rita Hester, uccisa nel suo appartamento nel 1998 e prontamente ignorata dai media locali — forse perché solo una tra le tante, troppe vittime di un odio che colpisce tutte le persone transgender ma soprattutto le donne, tutte ma soprattutto quelle nere o latinoamericane (oggi per evidenziare questo problema si parla di intersezionalità).


Ma anche vittime come la giovane Leelah Alcorn, che a soli 14 anni ha avuto il coraggio di aprirsi con i genitori circa la sua identità di genere, con l'unico risultato di essere costretta a lasciare la scuola e a frequentare una terapia di conversione. Leelah, che si sentiva "una ragazza intrappolata nel corpo di un ragazzo", non ce l'ha fatta: incapace di tollerare l'odio subito e l'idea di rimanere in quel corpo "sbagliato", si è tolta la vita due anni più tardi, nel dicembre 2014.


A ben guardare, anche vittime cisgender come Maria Paola Gaglione, uccisa pochi mesi fa dal fratello perché fidanzata con un ragazzo trans, Ciroe non "Cira che si veste da uomo", come riportato da fin troppe testate giornalistiche.


Il sito Transrespect versus Transphobia Worldwide ci colloca al primo posto in Europa per casi di omicidio a carattere transfobico. Questo articolo di The Vision riporta i dati inquietanti circa l'accettazione delle persone transgender in Italia.



Come psicologo clinico so bene che le vittime della discriminazione non si fermano a quelle che compaiono sulla cronaca nera, ammesso che la cronaca nera si prenda la briga di prestare loro attenzione.


Le vittime della discriminazione sono anche tutte quelle che sono costrette ad assistere allo stillicidio della minoranza di cui fanno parte: proprio da qui nasce il Minority Stress, il disagio psicologico che si genera in un ambiente ostile o indifferente e che si accompagna, spesso, al fenomeno dell'auto-discriminazione (è il caso dell'omo-bi-transfobia interiorizzata).


Il Minority Stress colpisce le persone che crescono e vivono in un mondo che le rifiuta, ostracizza, esclude dalla propria narrazione; un mondo in cui al telegiornale si sente parlare de "il trans" per indicare una donna — peraltro da persone che per lavoro sono, letteralmente, gli esperti del linguaggio; un mondo in cui non c'è spazio per la propria rappresentazione al cinema, nei libri, nel mondo dello spettacolo se non come "vittima #03" in una puntata di CSI.



Le variazioni dell’identità di genere nei bambini e negli adolescenti


Come psicologo dello sviluppo so anche che questo clima infausto ha un impatto particolarmente forte sin dai primi anni della crescita. Bambini e adolescenti possono sperimentare variazioni dell’identità di genere – fino alla disforia di genere anche severa – già in età molto precoce, tanto che in alcuni (pochissimi) casi viene prescritta una terapia farmacologica per “mettere in pausa” l’arrivo della pubertà. Negli Stati Uniti dal 2007 (lo stesso anno in cui in Italia si teneva il primo Family Day), in Italia dall’anno scorso – in entrambi i casi, sollevando dilemmi etici e un mare di polemiche.


La terapia bloccante consente in realtà di guadagnare tempo prezioso in cui solidificare la propria identità di genere prima di prendere una decisione definitiva, dal momento che lo sviluppo delle caratteristiche sessuali secondarie (come la struttura ossea e il timbro della voce) è irreversibile una volta innescato.


Se è vero che la maggior parte dei casi di disforia di genere in età precoce non permangono fino all’età adulta e che, al momento, non abbiamo ancora degli indicatori che ci permettano di prevederne il decorso con certezza, sappiamo che:

  1. i casi più estremi hanno più probabilità di essere persistenti;

  2. già nel “qui e ora” della preadolescenza, osservare il proprio corpo che si sviluppa in modo non conforme al proprio genere di appartenenza può essere un’esperienza fortemente iatrogena, ovvero provocare disagi psicologici di ampio spettro, dall’ansia alla depressione, dall’isolamento sociale all’autolesionismo, dai disturbi alimentari ai pensieri suicidari.

Sebbene la letteratura sia scarsa, sempre più ricerche stanno studiando lo sviluppo dei bambini e delle bambine “gender-nonconforming”, ovvero coloro che sperimentano interessi, gusti, pensieri, comportamenti e, talvolta, identità di genere diversi da quelli che “ci si aspetterebbe” sulla base del loro sesso assegnato alla nascita.


Questi bambini possono, già dall’età di 3 anni, mostrare marcate preferenze per l’abbigliamento e i giocattoli tipicamente associati al genere opposto; spesso prediligono la compagnia dei bambini di sesso opposto, a differenza dei “gender-conforming”; alcuni parlano di sé (e richiedono che si parli di loro) con i pronomi del genere opposto e arrivano a verbalizzare di vedersi, percepirsi e addirittura “sognarsi” come appartenenti al genere opposto.



Le ricerche di Kristina Olson, ad esempio, evidenziano come questo senso dell’identità sia estremamente precoce e antecedente l’eventuale riconoscimento del genere di elezione da parte della società. In altre parole, quei bambini e quelle bambine che ricevono il supporto di genitori e insegnanti nella loro “transizione sociale” non risultano in alcun modo confusi, ma al contrario si identificano nel genere d’elezione tanto quanto coloro che non hanno ricevuto il medesimo supporto.


È opportuno sottolineare che la transizione sociale non ha nulla a che fare con terapie mediche o farmacologiche: il termine indica l’assunzione del genere di elezione attraverso quel mondo di significati che va dai pronomi ai giocattoli, dai vestiti al modo di parlare e, soprattutto, al riconoscimento della propria identità da parte degli altri.


La ricerca mostra come un clima familiare supportivo, in grado di rispettare e validare le variazioni dell’identità di genere – dalle “preferenze inaspettate” alla transizione sociale vera e propria – sia alla base di un maggiore benessere psicologico e di una minore incidenza di disturbi internalizzanti come ansia, depressione, ritiro sociale e ideazione suicidaria.


Basterebbe questo, o dovrebbe bastare; ma in tanti, purtroppo, sono i fautori di un’imposizione rigida dei ruoli di genere.


Forse la paura è che l’alternativa sia un’applicazione altrettanto rigida della filosofia gender neutral (ad esempio attraverso la proposta di giocattoli “unisex”), o che si arrivi a “negare le differenze biologiche” che sono per noi adulti una chiave di lettura del mondo archetipica e rassicurante.


Eppure nessuno è interessato a negare le preferenze temperamentali: nel suo saggio “Noi siamo il nostro cervello”, Dick Swaab ricorda come già i primati non umani siano maggiormente attratti da certi tipi di giocattoli sulla base del sesso di appartenenza, ma anche come i livelli di testosterone e altri ormoni già nell’ambiente uterino siano predittivi della successiva identificazione di genere.


Si parla però di medie statistiche, di dati normativi. Ma la psicometria (ovvero la misurazione obiettiva delle caratteristiche psicologiche) e la pratica clinica ci insegnano che l’essere umano è fatto di eccezioni; statisticamente, tutti e tutte “deviamo dalla norma” per almeno una caratteristica – spesso senza nemmeno accorgercene. È probabile che chiunque stia leggendo questo articolo differisca sensibilmente dal 95% della popolazione per una peculiarità fisica, per l’orientamento sessuale, per un’abilità o una difficoltà neurocognitiva, per un certo comportamento o per il fatto che ama la pizza con l’ananas – ma anche, appunto, per l’identità di genere o per la sua espressione.


Si apre così un universo di complessità e unicità da rispettare e validare per il solo fatto di esistere: dal bambino transgender (female to male) a cui piace comunque indossare abiti tipicamente “femminili” al bambino cisgender che preferisce le Barbie alle macchinine; dall’adolescente che desidera sperimentarsi in entrambi i ruoli di genere a coloro che non si sentono a proprio agio né definendosi maschi, né femmine – siamo nel dominio delle persone non binarie.



Come nasce la transfobia (e come riconoscerla)


Contemporaneamente, nel dibattito comune sembra essere riemersa negli ultimi anni una new wave della conformità di genere, alimentata probabilmente dalla sempre maggiore normalizzazione ed esposizione mediatica delle persone appartenenti alla comunità LGBTQ+.


La dinamica sociale è semplice: confrontarsi con la complessità dell’identità di genere (così come dell’orientamento sessuale e della diversità culturale) può essere spaventoso, perché minaccia le rassicuranti fondamenta della tradizione e del “si è sempre fatto così”.


La prima reazione è aggrapparvisi saldamente, in questo caso attenendosi rigidamente ai ruoli e agli stereotipi di genere: “l’uomo fa questo, la donna fa quello; ai maschietti piace questo, alle femminucce quell’altro”.


Una seconda strategia è quella del rifiuto a tappeto: si etichetta come impossibile, o sbagliata, o patologica (e dunque, per la fallacia del mondo giusto: colpevole) qualsiasi deviazione dalla norma, dall’adolescente trans al cantante famoso che indossa un abito da donna alla bambina che preferisce giocare a calcetto invece che fare danza classica.



Come afferma Michela Marzano nel suo “Mamma, papà e gender”, «la società è profondamente a disagio nei confronti di queste persone che sembrano ribellarsi al destino e alla natura».


Se non basta il rifiuto si passa alla svalutazione e alla falsificazione (basti pensare al mito della Teoria del Gender) fino all’aggressione verbale; e se non basta l’aggressione verbale si arriva infine all’aggressione fisica.


Così nasce la transfobia.


Così permea a tutti i livelli, dalla violenza esplicita alle microaggressioni, dalla svalutazione dell’altrui esperienza (“è solo una fase”) alla cis-normatività (dare per scontato che tutte le persone con cui abbiamo a che fare non siano transgender), dalla negligenza giornalistica di cui sopra alla rappresentazione scarsa o macchiettistica nei media, dalla discriminazione sul luogo di lavoro (“non assumerei persone trans”) a quella istituzionalizzata (“le persone trans devono usare il bagno del loro sesso di nascita”).


Non è difficile immaginare quanto possa essere stressante e traumatico crescere in un simile clima sociale (e, talvolta, familiare) per bambine/i e adolescenti che si identificano in un genere diverso da quello assegnato alla nascita, o semplicemente non si sentono a proprio agio nei ruoli di genere che gli è richiesto di abbracciare – basti pensare che i primi episodi di rifiuto ed esclusione nei confronti di coloro che deviano dalla norma si presentano già in età prescolare.



Nella mia pratica clinica sono abituato a interfacciarmi con diversità di ogni tipo: etniche, neurocognitive, relazionali, di orientamento sessuale e di identità di genere.


Per me la norma è la deviazione dalla norma.


Per questo sostengo che non importa se stiamo parlando di una percentuale di popolazione che si aggira intorno all’1%: ognuno di questi bambini merita uno sviluppo sano in cui possa esprimere liberamente la propria identità e ricevere il supporto e la validazione di cui ha bisogno.


L’atteggiamento più efficace è quello che suggerisco a tutti i genitori che seguo nei miei percorsi di Parent Training:

  • apertura;

  • curiosità;

  • sospensione del giudizio;

  • ascolto attivo.

Occorre innanzitutto conoscere quali sono i nostri “temi caldi”, quali le nostre paure e aspettative, quali le nostre emozioni e i nostri pensieri automatici. Una forte attivazione emotiva non è mai una buona base per intraprendere azioni genitoriali efficaci.


Così come a livello familiare, anche a livello sociale un atteggiamento che restituisca dignità alle differenze individuali dovrebbe essere la strada da seguire, dalla scuola alle Istituzioni, per tutelare il benessere psicologico di bambini e adolescenti (e degli adulti che diverranno). L’approvazione alla Camera del disegno di legge contro l’omotransfobia, l’abilismo e la misoginia è un primo, importante passo, ma il percorso è ancora lungo.


Insomma, qualcuno pensi ai bambini: anche a quelli transgender.









Autore

Dott. Stefano Verza, Psicologo clinico e dello sviluppo,

esperto in DSA e Minority Stress, Socio fondatore di NeoPsi e creatore







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